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Angolazioni postume

L’esistenza umana si muove attorno a due specifiche coordinate irriducibili l’una all’altra, il “prima” e il “dopo”, le quali danno forma alla continuità di un insieme di vissuti soggettivi che si tramutano in storia personale ed è proprio tale continuità che ci interroga: cosa celano il “prima” di ogni prima e il “dopo” di ogni dopo? Riusciremo a sospendere e risolvere noi stessi se ci pensiamo come punti interrogativi sospesi tra due nulla?

Mi accarezzano, con la loro profonda ed intima malinconia, i mirabili versi del "Canto Notturno di un pastore errante dell'Asia", composti dal celebre Giacomo Leopardi, di cui il principio e la fine della poesia appaiono densi di significato:


“Che fai tu luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi [...] E’ funesto a chi nasce il dì natale”.

In questi versi, Leopardi utilizza l’esemplare figura del pastore errante per considerare la costitutiva infelicità dell'intera materia vivente, di cui l’essere umano pare essere il supremo rappresentate. La scena si apre su di un paesaggio desertico illuminato dalla silenziosa luna mentre in basso, alla guida del suo gregge, si muove un vecchio pastore e lo spettacolo naturale che si figura parrebbe favorevole a distensivi pensieri.. anche se in realtà il pastore

intraprende un sottile colloquio con la luna che si risolve in meste considerazioni intorno alla sventura del vivere e che approda, via via che il colloquio avanza, nell'orrido abisso dell'oblio e del nulla.

Il pastore è consapevole che le sue incessanti domande sono destinate a rimanere senza

risposta, giacché l'universo risulta privo di ogni finalità e di qualsiasi rapporto col destino e con la felicità dell'uomo. Il vecchio pastore infermo, mezzo vestito e scalzo, con un gravoso peso sulle spalle, rappresenta l'umanità intera: egli ha attraversato immense pianure, ha valicato monti, ha veduto città e deserti, fiumi e laghi, ora sotto la luce cocente del sole, ora alla chiara e diffusa luce della luna, finché, giunto al termine del suo viaggio, sfinito dalla fatica, cade nell'abisso e nell'oblio della morte.


Tale è la vita dell'uomo: un faticoso ed incessante procedere dal nulla al nulla, non consolato da alcun raggio di speranza. Di qui l'invidia del pastore per le pecore, le quali, nella loro incoscienza non hanno la consapevolezza della propria miseria. La luna ascolta i lamenti e le invocazioni del piccolo umano che si tormenta laggiù, in quelle lande sconfinate e solitarie, nella dolorosa fatica dell'esistenza, e sembra conoscere il perché delle cose, così come la

ragione dell'infelicità umana.. o forse, anch'essa è partecipe dell'umano destino ed ignora a qual fine volge il suo continuo apparire e scomparire, il suo percorrere le immense distese stellate dell'universo, insieme con la Terra e con tutti gli altri corpi celesti, sospinta da una misteriosa forza che non crea che per il gusto di vedere soffrire e morire. Tutte le creature sono quindi soggette al dolore, alla sofferenza che accompagna gli esseri viventi dalla nascita alla morte, ma l'uomo, privilegiato perché consapevole, paga questo suo dono con

l'ansia continua di interrogativi che non si esauriscono, cui non viene data risposta. Dai versi leopardiani emerge tutta l'angoscia di chi è costretto a ricordare, ad avere coscienza della propria nullità rispetto all'infinito... come potremmo però cogliere il mondo contingente, transeunte e riconoscergli queste caratteristiche, se non recassimo in noi l’idea di assoluto quale parametro di confronto? E’ infatti attraverso il positivo che cogliamo il negativo, attraverso la pienezza che avvertiamo la mancanza o il limite. Una cosa è la conoscenza concreta, analitica, che scruta la realtà e si ferma al relativo, altra cosa è quella conoscenza – che può definirsi comprensione, la quale penetra all’interno della realtà, scorgendone profondi legami. La conclusione della poesia esprime un altro significativo concetto: il giorno della nascita porta lutto e dolore per l'essere nascente, in quanto è l'origine delle sofferenze che saranno compagne di tutta la vita. L'uomo, nel momento in cui nasce, intraprende questo viaggio esistenziale, consapevole del fatto che, per quanto possa mettere i problemi da parte e per quanto possa raggiungere nella sua vita, arriverà il giorno in cui la morte porterà via, avidamente, il suo corpo e forse anche la sua anima. Allo stesso modo si esprime il filosofo goriziano Carlo Michelstaedter, morto suicida all’età di ventitré anni:


"È dunque la nascita il caso mortale per cui gli uomini muoiono ad ogni istante in tutto ciò che vogliono".

Uno dei più grandi problemi di quell'essere finito, imperfetto e caduco che è l'uomo sta proprio nel fatto di sapere in anticipo quale sarà il suo destino: il viaggio ch'egli intraprende non lascia dubbi sulla meta finale ... la morte è come un insaziabile felino: è sempre in agguato, pronta a recidere ad ogni istante il legame con la vita. L'essere umano, grazie alla sua finitezza, è l'unico essere che soffre doppiamente per la sua condizione; da un lato soffre fisicamente, in virtù dei mali che disseminano la sua travagliata esistenza, mali

dovuti forse al destino. Dall'altro lato, però, l'uomo soffre anche intellettualmente, dato che, come abbiamo detto poco sopra, è consapevole della propria finitezza ed ha coscienza soprattutto del fatto che non può in alcun modo conoscere le risposte agli inquietanti quesiti che inesorabilmente si pone, grazie al possesso della ragione. L'uomo, quindi, a causa della ragione, ha distrutto il sogno, la fantasia, gli ideali ... questo è quanto pensa Leopardi in

merito all'infelicità umana e alla presunta facoltà che eleva l'uomo rispetto agli altri esseri viventi, quasi a celebrare questo dramma della finitezza, posto tra la vita umana e un’ipotetica sopravvivenza dopo la morte; ma non è tutto. Non solo la ragione è nemica dell'uomo, ma la natura stessa gli è nemica, in quanto si serve di lui per scopi che l'intelletto umano non sarà mai in grado di scoprire. Tutti i misteri della vita, l'universo, la figura dell'uomo, le stagioni, i giorni, gli anni celano qualcosa che l'uomo non riesce a comprendere; la vita pertanto è falsa, è noia ... la vita non è degna di essere vissuta.

Ecco la sconcertante conclusione a cui giunge il pessimista Leopardi anche se, nella "Ginestra" - in cui il poeta di Recanati afferma che il fiore del deserto riesce a sopravvivere sulle pendici laviche del Vesuvio, dove mancano le condizioni indispensabili alla vita - esprime la speranza dicendo che forse anche l'uomo riuscirà ad uniformarsi alla propria esistenza e forse cioè la sua vita, proprio per quei pochi attimi di gioia che dà, è degna di essere vissuta... anche perché, prima di tutto, la vita è un dono e come tale va accolto e vissuto, ed è proprio l’intima consapevolezza che la vita non ci appartenga a conferire ai momenti che popolano il nostro cammino esistenziale un attributo di unicità e speranza.

La vita, insieme alle modalità con le quali si manifesta, dev’essere la nostra scuola così come la gioia di viverla, di domandarsi e di imparare, deve rappresentare la nostra certezza.



©️ Foto by Lukas Englaro

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